Da sinistra, Joey Castillo, Dean Fertita, Josh Homme, Michael Shuman e Troy Van Leeuwen

Alla scoperta di: Queens of the Stone Age

Questa non è una cronistoria dei Queens of the Stone Age (QOTSA). È un viaggio alla scoperta delle loro peculiarità artistiche. Per dirla come un adolescente, voglio far fluire le emozioni. Parlando come un uomo della mia età, si tratta di razionalizzare la passione per questo gruppoo.

I Queens of the Stone Age nascono nel 1996 e sono un gruppo collettivo. A non cambiare mai è il leader e fondatore, Joshua Michael Homme, l’uomo col braccio da rugbista e le dita da pianista. A cambiare raramente è il tastierista, quasi sempre Troy Van Leeuwen – senza dimenticare la bella Natasha Shneider. A cambiare spesso è il batterista, di cui si ricorda maggiormente Joey Castillo (Dave Grohl è un discorso a parte). Il bassista più significativo è Nick Oliveri, versione cazzuta di Saturnino. Ecco un grafico temporale che riassume l’intricata composizione dei QOTSA.

Andando al sodo, i QOTSA hanno inventato un genere, o meglio lo hanno ereditandolo dal proto-QOTSA, i Kyuss, fondato da Homme nel 1990. Questo genere i QOTSA lo hanno portato avanti, lo hanno strutturato e raffinato. È lo stoner rock, di cui sono indubbiamente gli esponenti principali. Quest’anno sono vent’anni dal primo album, omonimo, che ha reso popolare lo stoner rock. Da …Like a Clockwork in poi la musica è cambiata, guarda caso proprio l’anno dopo il ritiro di Casey Stoner dalle corse di moto (non c’entra nulla ma è una bella coincidenza). Cos’è lo stoner rock? Ritmicamente parlando, è distorsione secca sul primo movimento. It’s not a rolling stone, rather a falling stone, direbbe Homme se glielo si chiedesse. Le secchiate di chitarra di The Sky is Fallin’ (Song for the Deaf, 2002). Ta-na-na-na-nà, the sky is faaallin’If Only. Esteticamente parlando, sono brani che ti picchiano addosso, ti piovono sul petto, ti inondano a schiaffi. Il capolavoro è Song for the Death, incontro di due pesi massimi, il nostro Homme e quel pazzerello trangugia caffé di Dave Grohl, nato nel gruppo anti-tecnicista per eccellenza, i Nirvana, fondatore e frontman di una band rock-pop, i Foo Fighters, e quando si mette alla batteria, uh, mammamia, quando Dave si mette alla batteria…

Stoner è un rock dal martello costante, periodico, che picchia forte con le distorsioni ma, attenzione, contrariamente all’hard rock, non cede ai virtuosismi casinari, piuttosto mantiene una ritmica blues. Al barocchismo virtuoso preferisce il sincopato. È sporco ma non lurido. È asciutto, selezionato, contato, pensato. Per esempio, Song for the Death – che nome dark-, pur essendo un brano molto rumoroso non manca di essere cadenzato, alternando un tema di chitarra e basso pesantemente distorto con improvvisazioni leggere. Il quid è una gran tecnica, una gran forza dal vivo – che progressione che ha avuto la voce di Homme negli anni -, un potente rock che concede poco al lirismo metal. Come ci riesce? Grazie alla sincope. È un gruppo che non rinuncia a virtuosismi ritmici, a spostamenti di accento nei brani, a un 7/4.

Sono quindi pesanti, una pioggia di distorsioni, e nello stesso tempo leggeri. Più che hard rock di teschi e giubbotti di pelle si tratta di hardcore senza corde vocali strappate. I QOTSA sono metallari epurati dalla tamarreria. Sono QOTSA senza essere cuozzi. In altre parole, non si prendono sul serio, ma fanno cose serie. È questa l’identità dei Queens of the Stone Age, la loro originalità, la loro specificità: forza con leggerezza, aggressività senza violenza, come un elegante pugno kung fu.

Oggi il loro sound è più diluito, esito naturale a quasi trent’anni dalla nascita del genere (Kyuss, 1990). Resta però la leggerezza. I QOTSA, a partire dagli ultimi due album – …Like a Clockwork e Villains – hanno spostato il baricentro dallo stoner rock al rock ‘n roll.

E ora, poniamo la questione in termini filosofici. Cos’è il proprio dei Queens of the Stone Age, cos’è che gli appartiene, cosa li connota? Perché pungono, perché piacciono?

Partiamo da questa foto:

Da sinistra, Michael Shuman, Dean Fertita, Josh Homme, Gene Trautmann e Troy Van Leeuwen

Non fa ridere questa foto? A me sì. Li riassume bene: quattro facce teatralmente incazzate con Homme che li mantiene in una posa da sceneggiata napoletana. Ecco il loro spirito, immortalato in questa immagine. Equilibrio tra pesantezza e leggerezza, tra hard rock e rock ‘n roll. In una parola: ironia. I Queens of the Stone Age sono ironici, non si prendono sul serio ma fanno cose serie. Si muovono tra lo scansonato rock ‘n roll e seriosità metallara, a volte sbilanciandosi da un lato, a volte dall’altro, a volte miracolosamente in mezzo. Ironico è un pezzo come Little Sister, dove l’improvvisazione della chitarra è assolutamente divertente, pur trattandosi di un pezzo stoner rock. Ironico è Make it wit Chu, che gioca sullo stereotipo del chitarrista che che rimorchia, quando in realtà suona per quelli che rimorchiano. Sono cazzari, come la mole di Homme, sproporzionata rispetto alla sua raffinatezza tecnica. L’ironia la ritroviamo nella batteria di Grohl in Song for the Death, in chiusura, quando riprende il finale con un urletto. Ironia è contare male l’attacco del brano in un live. I QOTSA sono come i riff di Homme: più che cattivi potenti, decisi più che tamarri.

Oggi questa energia si è un po’ affievolita, ma non c’è da disperare, è naturale. Come detto prima, hanno spostato il baricentro ma gli ingredienti sono sempre gli stessi. Magari se tornasse Nick Oliveri al basso, Joey Castillo alla batteria, potremmo rivedere album più cazzuti, con Grohl guest star track. Dave, il sale rosa dell’Himalaya, la mostarda bio da aggiungere saltuariamente a succulenti lavori collettivi. L’eccessiva leggerezza degli ultimi album è qualcosa in nuce già dalle origini. La fine dello stoner rock è dialetticamente comprensibile: i QOTSA sono diventati troppo leggeri ma in realtà (perché) lo sono sempre stati. Magari è solo uno scherzo, non dimentichiamoci che loro non si prendono sul serio.

Sono i baffi di Mercury più che la chitarra di May. La giacca jeans di Bruce Dickinson senza teschi. Una testa impomatata piuttosto che una sputata di fuoco, uno sguardo ammiccante a uno incazzato. Ma l’amplificatore deve sempre esser pronto – parafrasando il mio socio Moris – a farti bruciare le sopracciglia. E stai fermo con quella testa, frena l’headbanging. Non ce n’è bisogno.

 

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